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È lungo più di tre chilometri e la sua copertura rossa, con scaglie triangolari distribuite a creare una texture che ricorda la pelle di un dragone, si estende senza soluzione di continuità per un milione e trecentomila metri quadrati. Questa architettura ha il primato come struttura coperta più grande del mondo. È il nuovo Terminal 3 di Pechino progettato da Sir Norman Foster come una land architecture, o meglio un’architetturacittà che propone, per il nuovo millennio, l’idea di “colossale” come valore simbolico. L’immensa nuova “porta” per e dalla Cina.

“Immaginate i terminal 1, 2, 3 e 4 dell’aeroporto di Heathrow riuniti assieme sotto lo stesso tetto e aggiungete un altro 17 per cento di spazio utile. È una struttura così grande che, in determinate condizioni di luce, non si riesce a vedere da un’estremità dell’edificio all’altra”. Così il suo autore, Sir Norman Foster, descrive il nuovo Terminal 3 dell’aeroporto di Pechino, la più colossale opera pubblica costruita e progettata in soli quattro anni, in vista delle Olimpiadi di questa estate. Sfatando l’idea che l’aeroporto possa oramai annoverarsi nell’elenco delle tipologie che l’antropologo Marc Augé qualche anno fa identificava nei ‘non luoghi’ (spazi con carattere standardizzato e privi di rapporti con la storia e la città, anonimi e ripetibili, poco attrattivi e spersonalizzati), il nuovo aeroporto della capitale cinese si propone come un’architettura che per dimensione, scala e servizi supera il concetto di ‘edificio’, diventando una struttura territoriale; una macroarchitettura o una piccola città, simulazione o frammento di quella cui fa, simbolicamente, da ingresso.

Destinato a ricevere a regime finale 85 milioni di passeggeri/anno, il ‘T3’, come è chiamato in gergo, in occasione della sua inaugurazione avvenuta il febbraio scorso, è stato liricamente descritto dal giornale governativo China Daily come “un paese delle meraviglie costruito per l’arrivo delle navi volanti”. Basterebbe contare i 90 supermarket interni, i 64 ristoranti (dalla cucina cinese declinata nelle diverse regioni alle specialità occidentali), tutti i loghi del fast food mondiale (da Starbucks a McDonald’s, dai gelati di Häagen-Dazs al pollo fritto di Kentucky Fried Chicken), affiancati da spazi per il fitness, i massaggi, la meditazione e il riposo, un giardino con laghetto e ponticello in perfetto stile chinese garden, una pagoda con le immancabili lanterne rosse, alberghi e cinema, per capire che sotto il tetto del lungo ‘dragone rosso’ sta crescendo un aeroporto-città, uno dei megascali di riferimento mondiali il cui primato spetta ancora ad Atlanta con i suoi 84,8 milioni di passeggeri all’anno. Ma, a differenza degli hub consolidati e cresciuti nel tempo sopra se stessi come quello londinese, il ‘T3’ si presenta gigantesco nel suo atto di fondazione e sottolinea quindi lo sviluppo di una ‘tipologia’ propria del nuovo millennio: la land architecture, come avevamo scritto in Interni a proposito della nuova Fiera di Milano progettata da Massimiliano Fuksas. Si tratta di architetture che si declinano in modo unitario su scala territoriale, ma, che, non per questo, perdono la capacità di comunicare un forte carattere, un’immagine scandita da una regia complessiva sempre presente, tesa ad arricchire la costruzione anche di un surplus evocativo e simbolico. A Pechino il ‘T3’ intende certamente proporsi come la ‘nuova porta’ della Cina per il pubblico e gli atleti olimpici e mantenere poi tale vocazione anche per i cinesi che nel prossimo futuro passeranno nel ventre del ‘dragone’ per viaggi di turismo (la World Tourism Organization si aspetta che dalla Cina entro vent’anni partiranno almeno cento milioni di turisti all’anno). Certo, un’architettura che intende divenire un nodo di tale importanza, anche se luogo ‘di passaggio’, di arrivo e partenza, non solo deve offrire servizi sempre più articolati legati alle metodologie di imbarco e sbarco, ma deve essere in grado di soddisfare il passeggero sotto più punti di vista, e quello del comfort ambientale e dell’immagine architettonica giocano senza dubbio ruoli importanti. Così, negli interni, la copertura dai riflessi dorati su sfondo rosso evoca il Palazzo Imperiale della Città Proibita, mentre le sfumature (16 diverse tonalità) che vanno dal rosso laccato delle colonne della facciata, ripetute per l’asse centrale, all’arancio e al giallo dei tralicci di sostegno delle vetrate a tutt’altezza aperte sulle piste di atterraggio (come nel Chep Lap Kok pensato da Foster qualche anno fa per Hong Kong) rimandano volutamente all’iconografia della tradizione cinese. Una sorta di riuscita fusione tra innovazione tecnologica (anche dal punto di vista della sostenibilità il ‘T3’ offre ottime prestazioni energetiche e di consumo) e sapori dell’architettura classica cinese caratterizza questo progetto di Foster che si risolve in un’unica ampia copertura scolpita da lucernari triangolari aperti verso il cielo che, dalla piazza d’ingresso segnata da una serie di colonne rosse inclinate, forma un corpo fluido a forma di T con una grande testa e una lunga coda. Peccato che il livello di smog raggiunto dalla capitale cinese non permetterà di cogliere la schiena del ‘dragone’ nemmeno in fase di atterraggio se non in giornate particolarmente ventose; i viaggiatori si consoleranno nell’interno dove cresce una nuova piccola città con le sue passerelle e collegamenti verticali, marciapiedi mobili e scale meccanizzate, in un’accurata miscela tra shopping mall avveniristico e luogo simbolico, cattedrale appagante del nuovo millennio consacrata al consumo, che appare sempre più come la ‘divinità’ di riferimento del mondo globalizzato.

 

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