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A Milano, nella Cá Brütta (1922), capolavoro del Novecento milanese progettato da Giovanni Muzio, un intervento di restauro pensato come un aperto confronto tra storia e segno contemporaneo scritto da William Sawaya. Sensibilità e convinzione, per riportare in luce le qualità dell’abitazione occupata un tempo dall’autore dell’architettura che l’accoglie.
Non ancora trentenne Giovanni Muzio, tra i protagonisti della densa stagione del Novecento milanese, firma il progetto della grande casa di via Moscova che la vox populi chiamò subito come Cá Brütta. ‘Brutta’ perché eccessivamente ‘moderna’ rispetto ai canoni storicisti, espressi anche dal progetto di una prima variante all’originale a cura dello studio Barelli-Colonnese (con cui Muzio collaborava) a debole e svilente imitazione della lezione del Sommaruga. Nella casa di via Moscova il giovane Muzio traduce gli intenti di un programma che attraverso la rilettura dell’architettura neoclassica milanese tende a superare la condizione della crescita della città con “caotiche e disordinate vie nuove dove gli edifici si alternano bizzarri e contrastanti” per ristabilire “il principio d’ordine per il quale l’architettura, arte eminentemente sociale, deve in un paese essere innanzitutto continua nei suoi caratteri stilistici, per essere suscettibile di diffusione e formare con il complesso degli edifici un tutto armonico e omogeneo” (Giovanni Muzio). I due corpi che formano la soluzione urbana con strada interna segnata da una serliana chiamata a diventare arco urbano di collegamento e propileo d’accesso, nel rifiutare il concetto di fronte principale e secondario, propongono un’architettura in grado di formare paesaggio, dove la grammatica dei fronti annulla ogni tentazione di revival stilistico. Piuttosto le figure, gli archi e i timpani, le possenti colonne della base, i cerchi e le modanature, i graffiti chiamati a ‘comporre’ la formidabile sequenza dei fronti si propongono come uno spregiudicato saggio di tecnica compositiva che traduce la lezione classica in chiave d’avanguardia, che trasforma la facciata nel “luogo dove si concentrano gli istogrammi della memoria e si celebrano i paradossi dell’occhio: la pratica del tatuaggio simbolico trasforma l’unitario rivestimento in una sorta di pergamena istoriata, di bricolage infinito, di foresta di segni in cui l’occhio riesce a stento a cogliere l’immagine d’insieme delle singole parti” (Fulvio Irace).
La qualità della ‘casa’ (proposta a chi sognava un ‘palazzo’) si estende anche agli interni, dagli spazi comuni a quelli privati, come questo grande appartamento dell’ultimo piano dove lo stesso Muzio scelse di vivere e che William Sawaya ha individuato come luogo d’abitare. Così, lungi dal pensare alla propria casa come ‘semplice’ autoritratto architettonico autoreferenziale, Sawaya ha saputo ascoltare la storia di queste stanze riportandone in luce qualità spaziali, materiche e ambientali, enfatizzando la luce proveniente dalle aperture anche con giochi di specchi (a schermare una porta verso il corridoio), restaurando i pavimenti originali, intervenendo sì con decisione e riconoscibilità contemporanea nella ricerca però di un dialogo e un confronto in grado di accogliere nuove ed esuberanti presenze d’arredo, collezioni di opere d’arte, ma, allo stesso tempo, di catturare la presenza del tempo.
Un tempo che, scandito dagli stucchi e dalle piccole finestre con vetrate colorate rivolte sui cavedi, dalle grandi porte e archi del lungo soggiorno composto da spazi in sequenza, è stato come ‘fossilizzato’ coprendo con un denso color sabbia muri, infissi e stucchi, fino a raggiungere poi i soffitti, bianchi e luminosi. La riforma della zona d’angolo della casa, con la creazione di due bagni di servizio e della nuova cucina su disegno, si è accompagnata con il rispetto della cadenza degli spazi originari che vedono affiancarsi al suggestivo atrio-corridoio d’ingresso parallelo al salone uno studiolo per la lettura, una stanza home theatre e le due camere da letto conclusive che stringono l’originale bagno padronale, con rivestimento di marmo di Siena restaurato. Una casa che accoglie nei suoi spazi originari nuove figure dell’abitare e che sottolinea come la qualità degli interni superi ogni dimensione ‘stilistica’ per enfatizzare il primato dell’architettura.